Le strade della guerra. Geopolitica di un conflitto.

Dopo un mese e più dall’inizio del conflitto russo-ucraino, emergono elementi che ci consentono di effettuare nuove valutazioni rispetto a quelle sino ad ora poste all’attenzione dei lettori di Umanità Nova. Due in particolare sono gli aspetti meritevoli di considerazioni. Uno è geopolitico ovvero l’importanza strategica del Mar D’Azov e del Mar Nero, l’altro è la proposta, sempre più concreta, della costituzione di una difesa comune europea.

Per quanto riguarda il primo punto dobbiamo innanzitutto premettere che i due bacini d’acqua non hanno solo una valenza locale ma sono il punto d’arrivo e di partenza di una parte rilevante della geoeconomia globale che vede nella Via della Seta (OBOR) la sua struttura portante. Il progetto “One Belt One Road” ha nelle vie marittime una delle direttrici preferenziali; non può essere diversamente considerato che il 70% degli scambi commerciali a livello mondiale avviene per mare. Il Mar D’Azov ed il Mar Nero, tramite il Caucaso ed in particolare la Georgia, sono uno dei punti di approdo globali della Via della Seta, nonché il terminale delle economie degli “Stan” (repubbliche del Centro Asia) oltre che rappresentare la rotta più breve tra l’Europa e L’Estremo Oriente. Il Mar Nero è una delle vie d’acqua più trafficate a livello mondiale: sono 48mila le navi che annualmente lo attraversano (il Canale di Suez registra un traffico annuale ben inferiore con circa 17mila navi), oltre che rappresentare una delle arterie principali del trasporto del petrolio. Oltre ai flussi energetici, di assoluto rilievo è il passaggio del grano russo-ucraino e del centro Asia tramite il Kazakistan. Si stima che il passaggio attraverso il Bosforo e i Dardanelli del cereale garantisca il 25% del fabbisogno mondiale oltre che coprire la domanda globale di un quinto di granoturco e olio di girasole.

Non è quindi un caso che questo bacino d’acqua negli ultimi anni sia diventato terreno di competizione e di spartizione. La Cina, nel maggio del 2017, ha firmato un accordo con la Georgia diventando il terzo partner commerciale, mentre nello stesso anno la società statunitense SSA Marine, uno dei leader logistici mondiali, ha preso in carico l’operatività del terminal container di Anaklia, uno dei più importanti del Mar Nero e già oggetto di finanziamenti europei, in particolare svizzeri, francesi e olandesi. In sintesi, questa via d’acqua rappresenta una delle principali direttrici dei traffici tra l’estremo oriente e l’occidente e viceversa. A conferma della crescente importanza del Mar Nero è il progetto turco del raddoppio del canale del Bosforo con un costo previsionale di oltre 8 miliardi di dollari USA. Tale opera infrastrutturale ha due valenze, una geopolitica e l’altra economica. Nella partita russo-ucraina entrano in campo anche le “riserve”, i “panchinari” che, tradotto nel linguaggio geopolitico, sono gli “imperialismi minori” dei quali la Turchia è uno degli esponenti di primo piano. Le influenze turche alimentate dal “panturchismo” consegnano a Erdogan uno strumento non indifferente di pressione non solo sulle aree immediatamente adiacenti all’Anatolia ma anche in territori situati nel cuore dell’Asia: ne sono un esempio le minoranze turcofone in centro Asia sino ai confini della Cina.

Il richiamo panturco preoccupa non poco Mosca. Ricordiamo i rapporti preferenziali tra Turchia e Ucraina, poi la richiesta di riconoscimento della minoranza turca tatara di Crimea. Le sirene nazionaliste panturche si sentono anche nel profondo della Federazione Russa, dal Tatarstan alla Baschiria sino alla Siberia dove la presenza di minoranze turcofone offrono a Erdogan un elemento di pressione nei confronti di Putin. Mosca non può rinunciare ad avere un peso nel Mar Nero; la stabilizzazione del Donbass e la creazione di un corridoio che dalla Crimea si estenda sino a Odessa diventa vitale per il suo ruolo geopolitico e soprattutto per la sua economia. Il 65% dell’export russo ed il 38% del petrolio esportato transita dal Mar Nero.

La partita russo-ucraina si gioca quindi su campo molto più vasto di quello che comunemente si intende e va ben oltre i territori dell’attuale confronto bellico. Si può tranquillamente affermare che l’Ucraina è solo una parte di una geoeconomia euroasiatica. La crisi ucraina, già evidenziatasi nel 2014 con l’annessione della Crimea alla Federazione Russa, è solo un punto terminale di un disegno il cui focus è situato nel Centro Asia. Mosca sta tentando di rimanere in gioco nella competizione internazionale riproponendo il suo schema imperiale. L’aquila russa ha la testa in occidente ma il corpo e gli artigli in oriente e il Mar Nero ne è la sintesi. La costruzione secolare identitaria della “Santa Madre Terra Russa”, ereditata in toto dall’U.R.S.S., con la pretesa di ricongiungere i russofoni alla “Madre Patria” è solo, come tutti i richiami nazionalisti, la facciata dietro la quale ci sono gli interessi delle classi sfruttatrici. Il Donbass, la Crimea e Odessa sono solo una parte, peraltro decisiva, del tentativo di rimanere e contare nella competizione mondiale.

Il conflitto ha anche un altro effetto, quello di accelerare all’interno della UE il dibattitto su due punti focali: la necessità di una difesa comune europea e il ruolo dell’Alleanza Atlantica. Per quanto riguarda il costituendo esercito europeo avevamo già proposto, a inizio anno, ai lettori di Umanità Nova alcune riflessioni e delineato un quadro che ora trova ulteriori conferme. In queste ultime settimane sono diventati sempre più numerosi gli interventi degli opinionisti di “regime” sulla necessità della UE di avere un suo autonomo ruolo dal punto di vista militare. Il Presidente del Consiglio Draghi, voce di “peso” non solo nazionale ma soprattutto in campo europeo, ha ribadito, al termine della riunione dei primi ministri della UE tenutasi lo scorso mese a Versailles, che l’Europa deve “razionalizzare” le spese dell’apparato militare e che non è più differibile una organizzazione unica della difesa europea.

Tale opinione ha preso corpo anche in un ambito politico inedito quale quello del congresso ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) conclusosi nell’ultima domenica di marzo. Non è questa la sede per una valutazione politica dell’associazione ma dobbiamo comunque rilevare che l’ANPI sta mutando “pelle”, cioè non è più la “cinghia di trasmissione” del partito maggioritario della sinistra. Negli ultimi anni è il contenitore, il punto di riferimento, delle istanze politiche e ideali di una parte significativa di quella sinistra legalitaria che da tempo non esercita più il voto e di chi non ha più alcun referente partitico. Per questa ragione da associazione di testimonianza sta assumendo gradualmente un proprio profilo, una sua “autonomia politica” e un peso sempre maggiore nell’ambito della sinistra legalitaria.

Significativa è la parte della relazione congressuale del presidente Pagliarulo riguardante il posizionamento dell’Europa nel conflitto, il suo posizionamento geopolitico e il ruolo dell’Alleanza Atlantica. Nel documento congressuale viene riproposto il concetto di un’Europa unita e indipendente. Nella relazione viene riportato che: “l’Unione Europea deve essere rappresentata con una sola voce”. Soprattutto si incoraggia a chiare lettere il progetto di difesa comune europea, con caratteristiche esclusivamente “difensive”. Significativo a tal proposito un passaggio del documento congressuale: “senza un vero governo politico (Europeo) ed in particolare senza una comune politica estera non sarà possibile alcuna autonoma politica di difesa. Si è avviata una discussione su di un sistema di difesa europeo. Occorre che ne siano esplicitati e chiariti gli obiettivi, che dovranno essere mirati alla esclusiva difesa interna del territorio”.

Se da un lato viene caldeggiato un esercito comune europeo, progetto sostenuto fortemente da Italia e Francia, dall’altro lato viene anche esplicitamente affermato che l’Europa deve avere una sua autonomia politica. Il tema di una UE indipendente che possa giocare la sua partita nella competizione internazionale è visto anche in prospettiva di un esaurimento dell’Alleanza Atlantica. Nella relazione si afferma che: “va contrastata la tendenza, oggi prevalente, a considerare il futuro sistema di difesa come aggiuntivo alla NATO avviando una riflessione sul suo ruolo. Le ragioni originarie della NATO sono venute meno essendone caduti i presupposti storico-politici del crollo del Muro di Berlino. Nel nuovo mondo multipolare e nella prospettiva di un sistema di difesa europeo è perciò ragionevole una progressiva dismissione delle strutture NATO”. Affermazioni che non lasciano alcun dubbio sulla necessità di una creazione di una UE politicamente unita con un proprio strumento militare (esercito europeo) a sancire il fine percorso dell’era atlantica.

Il conflitto russo-ucraino ha accelerato le contraddizioni all’interno della comunità europea, la UE non ha parlato con una “voce unica” e non vi è stata una gestione unitaria della crisi. Inoltre si è posta sul tappeto una questione da tempo presente ma sempre rimandata: gli interessi di USA ed Europa non sempre si sovrappongono, anzi possono anche avere direzioni diverse e necessità di collocarsi nel quadro delle relazioni internazionali in modo autonomo. Il ruolo di Italia e Francia in Africa e nel “Mediterraneo allargato” è la lampante dimostrazione di un attivismo politico e militare che risponde a peculiari interessi dei due paesi, al di là e al di fuori del disegno geopolitico USA e quindi del suo braccio operativo, la NATO. In altre parole si sta profilando un modo globale sempre più frammentato ed in rapida evoluzione. In tale prospettiva l’Europa sta tentando, con mille contraddizioni, di ritagliarsi un ruolo di primo piano.

Se l’ANPI, attraverso il suo presidente, sceglie la via europea in alternativa a quella atlantica, nella relazione congressuale non vengono chiariti due aspetti fondamentali. Il nuovo esercito europeo non può avere solo un carattere “difensivo”. Gli eserciti non sono strumenti solo di dissuasione, un deterrente per la guerra, un salvacondotto per la pace, come alcuni esponenti delle forze armate da sempre sostengono. Il costo degli apparati militari risponde a una stretta logica economica o, meglio, a un logico tornaconto: quello della protezione dei propri mercati, vuoi per assicurare l’approvvigionamento di materie prime o per garantire il buon esito delle proprie esportazioni. Pagliarulo inoltre ha accuratamente evitato di chiarire un altro aspetto: l’indipendenza dagli USA e dalla NATO deve avere gioco forza un corollario irrinunciabile, quello di un apparato militare europeo ben più strutturato di quello attuale. Se la UE deve difendere i propri interessi deve inevitabilmente destinare alla spesa militare quote sempre maggiori di risorse rispetto a quelle, peraltro abnormi, ad oggi riservate.

La domanda che ANPI non vuole porsi, perché politicamente “scorretta”, è la solita: chi paga il conto? Il capitalismo ha sempre dato una solo risposta, le spese militari le finanziano le retribuzioni dei produttori o la diminuzione costante del welfare tramite il decurtamento delle pensioni e i tagli delle spese sociali. Il “pacifismo” e l’antiatlantismo targato ANPI lo pagheranno i soli noti. In conclusione l’alternativa alla NATO non è non può essere l’esercito europeo. Non vi sono apparati militari “migliori” di altri finché il profitto regola i rapporti tra le persone.

Daniele Ratti

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